Architettura, Urbanistica e Design (1924-1973)

op. 148 – Piano della Conca del Breuil nell’ambito del Piano regolatore della Valle d’Aosta, 1936-37, con Lodovico Belgiojoso

opera 148

Piano della Conca del Breuil nell’ambito del Piano regolatore della Valle d’Aosta, 1936-37, con Lodovico Belgiojoso

op148 copertina

Il piano regolatore della Valle d’Aosta, elaborato nel 1936-37 per iniziativa e sotto la guida di Adriano Olivetti, è un prodotto di eccezione nella storia dell’urbanistica italiana degli anni Trenta; lo è in particolare per l’impostazione del quadro analitico generale, eguagliato, quanto all’apertura dei temi e dei problemi, nella prima metà del secolo, forse solo dal piano A.R. per Milano e la Lombardia. Prima di questa esperienza, destinata a influenzare i fondamenti teorici del lavoro dei razionalisti milanesi, l’urbanistica si era rintanata nelle città, occupandosi del territorio circostante e delle campagne solo in quanto suscettibili di edificazione. I pochi allargamenti all’ottica regionale, condotti per lo più sull’onda delle indicazioni dei Ciam, come nel caso del C.M.8. per Como del 1933-34, erano ancora rigidamente legati a una concezione del piano quale mera sommatoria di regolamentazioni distinte per sistemi funzionali. Ciò che mancava era una visione generale dei problemi sociali e degli obiettivi del piano. Negli studi promossi da Olivetti sulla Valle d’Aosta la finalità sociale complessiva è invece chiaramente individuata e ciò fa interagire in una visione organica le analisi dei singoli aspetti. Cambia così anche l’orizzonte dei temi dell’urbanistica e il suo statuto disciplinare: non si tratta più tanto di mettere ordine in un quadro urbano attraverso la semplice redistribuzione spaziale delle funzioni, ma di promuovere il riscatto economico e sociale di un’area emarginata attraverso la valorizzazione delle sue potenzialità latenti; valorizzazione che non potrà che conseguire dalla disponibilità di «mezzi grandiosi che le risorse locali non possono fornire e che quindi vanno importati seguendo una parola d’ordine che non potrebbe venire che da Roma» (Bernardi, 1938, p. 5). Per come è restituita in questa esperienza, l’urbanistica non è dunque più soltanto la disciplina che presiede alla riorganizzazione dell’esistente, ma un apparato scientifico che coopera con altri saperi per definire le condizioni ottimali per l’insieme della società, divenendo parte integrante della programmazione e della pianificazione economico-sociale. Il suo intreccio con la politica si fa quindi a un tempo più evidente e meno subalterno. Nel caso specifico della Val d’Aosta, scrive nel 1937 l’on. Gerratana, «Non è possibile aspettare che la vita rimonti le valli. Bisogna portarla; ne consegue, come afferma lo stesso Olivetti, che se la vita in alta montagna è [divenuta] impossibile, la Nazione è chiamata a documentarsi, giudicare, provvedere» (Olivetti, 1937). L’urbanistica scopre dunque la questione sociale oltre lo scientismo igienista e il populismo, anche se questi elementi sono sempre presenti e riaffiorano telluricamente in taluni aspetti del piano, proprio sul versante più squisitamente riferito all’ambiente fisico. Per la prima volta in Italia le analisi urbanistiche investono le condizioni di vita della popolazione in una prospettiva che non è quella di avallare operazioni di ingegneria sociale. Se, in contrasto con le premesse generali, l’ingegneria sociale compare poi nel piano relativo alla città di Aosta, ciò sta a dimostrare, piuttosto, lo scarto fra il nuovo orizzonte e gli orientamenti consolidati nella cultura razionalista sulla città; anche se non si può dimenticare, d’altro canto, che questo piano ha il merito di mettere in discussione la zonizzazione sociale, cioè la dislocazione gerarchica per censo della popolazione urbana. In coerenza con la nuova apertura problematica, l’analisi si fa necessariamente anche inchiesta e denuncia, portando a conoscenza dell’opinione pubblica un quadro che è in contrasto con la propaganda di regime e che anzi costringe i diversi organi responsabili a prendere posizione. Il lavoro guidato da Olivetti non manca infatti di una sua intelligenza tattica. Mentre l’analisi è condotta a tutto campo, la proposta investe un ambito più limitato quale quello turistico, indicato, con non poca lungimiranza, quale settore strategico per la rinascita della Valle. I limiti apertamente denunciati della proposta hanno a che vedere anche con il fatto che l’iniziativa è del tutto innovativa rispetto alla tradizione consolidata che vuole l’imprenditore capitalista impegnato sì a mettere ordine nel retroterra territoriale della fabbrica, ma con un’ottica rigidamente paternalista. Certo il miglioramento delle condizioni economiche della Valle avrebbe positivamente influito anche sulla realtà di Ivrea e quindi della Olivetti; ma ciò ha una rilevanza secondaria negli orientamenti strategici del piano, e anche questo contribuisce a farne un fatto d’eccezione. Il darsi dei limiti dunque diviene necessario per rendere più incisiva la portata politica e culturale dell’operazione: le proposte non investono il campo dell’industria, di quella siderurgica in particolare, per non suscitare le gelosie di altri gruppi imprenditoriali e per non invadere il terreno su cui la politica governativa è più attivamente presente. Il piano olivettiano, proponendosi esplicitamente come «preliminare» e interlocutorio, postula piuttosto la messa a punto di un piano nazionale, e non certo per accrescere il già dilagante centralismo, quanto piuttosto per sollecitare prese di responsabilità rispetto al drammatico quadro dello spopolamento e della cronica povertà delle zone montane. L’ambito tematico ristretto non sta del resto a indicare che il suo carattere è quello di un piano settoriale o meramente funzionale. Il lavoro coordinato da Olivetti basa infatti le sue linee di intervento su una visione sufficientemente organica delle potenziali interdipendenze dello sviluppo turistico con il quadro economico e sociale complessivo. La portata storica di questa esperienza nel panorama italiano non è sfuggita a diversi critici coevi, anche se non sempre è pertinente il parallelo che questi istituiscono con altre esperienze straniere. P.M. Bardi nel 1937 afferma: «Un’opera consimile che ha altri caratteri, ma che come questa è studiata con intelligenza e modernità di concetti è quella del TVA (Tennessee Valley Authority) negli S.U.A., iniziata nel 1934, che farà risorgere un’intera regione» L’anno dopo A. Pica giunge a sostenere che «mai, sino ad oggi, s’è compiuto, in Italia e fuori, uno studio urbanistico di tanta mole e di tale importanza […] la serietà dello studio è solo paragonabile, semmai, all’esemplare piano regolatore di Amsterdam, predisposto dall’Ufficio urbanistico di quella città, o al piano del triangolo l’Aja-Rotterdam-Utrecht». Sono giudizi espressi in occasione delle due esposizioni tenutesi nell’estate del 1937 e in quella dell’anno successivo, rispettivamente alla Galleria d’arte di Roma e nei locali del Sindacato architetti di Milano. Le due esposizioni suscitano una vasta eco nella stampa e persino prese di posizione non formali dei ministeri responsabili; e, se pressoché nulli saranno gli sviluppi concreti, lo scopo dimostrativo è tuttavia pienamente raggiunto. La linea strategica illustrata nelle 450 tavole e nei cinque plastici relativi ad altrettanti progetti «urbanistico-edilizi» è avvertita con particolare attenzione negli ambienti più aperti. Gillo Dorfles, sulle pagine di «Vita giovanile», il periodico diretto da Ernesto Treccani, scrive nel luglio 1938: «La sua realizzazione rappresenterebbe un gigantesco passo avanti da un punto di vista sociale e architettonico […]». Sulla stessa rivista Giovanni Pintori traccia un quadro delle energie mobilitate da Adriano Olivetti con l’aiuto di Renato Zveteremich: «aviatori hanno volato per ore e ore sopra zone pericolose riuscendo a darci fotografie sensazionali e grandiose di paesaggi alpini […]; medici appassionati hanno pazientemente raccolto dati istruttivi e curiosi sulle condizioni biologiche di quelle popolazioni; economisti noti hanno appositamente sviluppato capitoli particolarmente riguardanti la zona in esame sintetizzando in un tutto organico le svariate manifestazioni dei rapporti sociali di un gruppo etnico in condizioni di grande isolamento economico; persino celebri rocciatori si sono prestati per la revisione e codificazione dei più interessanti itinerari alpinistici; infine la collaborazione di pittori nella stesura e nella costruzione e sistemazione delle tavole ha dato un’evidente intonazione di gusto e piacevolezza […]» (ed è un peccato che le pubblicazioni ufficiali del piano non riportino i nomi di tutti questi collaboratori). Se gli elogi non sono, come si è detto, immotivati per un lavoro d’équipe nel quale, nel pieno di anni bui, Adriano Olivetti ha saputo immettere un entusiasmo da New Deal, fa meraviglia che nessuna voce critica si sia levata in quegli anni su taluni aspetti, niente affatto secondari, dei piani «urbanistico-edilizi». Il riferimento obbligato è al già citato piano dei Bbpr per Aosta che, ricollegandosi «spiritualmente ed esteticamente all’antica e gloriosa Aosta romana» (Bernardi, 1938, p. 5), impone alla città l’ordine razionalista «totalitario»; propone cioè la generale demolizione del tessuto urbano di cui salva le sole tracce cardo-decumaniche e i monumenti del passato imperiale, con il quale intende stabilire una continuità ideale. È significativo che «Vita giovanile», che pure partecipa coraggiosamente con altre voci isolate alla critica della retorica monumentale, indichi poi il piano per la Val d’Aosta, e quindi anche quello del capoluogo, come un modello. L’affermazione che segue, estratta dal contesto in cui è inserita, potrebbe infatti suonare come una critica lucidissima proprio all’esercizio estetico condotto dai Bbpr sulla città alpina: «il diritto alla vita, e a una vita felice delle masse di una delle più belle e chiare vallate d’Italia è per noi troppo più importante delle oziose questioni pseudo-estetiche che si richiamano a ritorni monumentali, perché si possa pensare che l’intervento della nazione e le sue possibilità finanziarie trascurino progetti come questo ad esclusivo favore dei monumenti». Il fatto è che invece non vengono colte le collusioni che il piano per Aosta istituisce proprio con il monumentalismo e la retorica imperiale, che pure si incomincia a criticare apertamente; e questa è una delle tante testimonianze della scarsa chiarezza sul tema della città cui non sfuggono nel ventennio fascista anche molte coscienze critiche. In questa incapacità a distinguere è immersa la stessa esperienza di Olivetti, il cui spirito di illuminista che guarda al modello fordista trova consonanze con il concetto di ordine propugnato dai razionalisti. Né va dimenticato che il piano per Aosta non è episodio isolato: esso porta solo alle estreme conseguenze un orientamento sulla città in cui è integralmente immerso anche il progetto per via Roma a Bologna di Bertocchi, Bottoni e altri, al cui esame si rinvia nella scheda specifica. Diverso è invece l’esito degli altri quattro progetti particolareggiati affidati da Olivetti ai razionalisti milanesi al fine di dare concretezza al piano regionale sia in termini di programma edilizio sia in termini di prefigurazione del nuovo paesaggio. Il quartiere progettato per Ivrea da Figini e Pollini rientra nella sfera delle soluzioni razionaliste per la periferia, sia pure con una sua originalità nella ricerca estetica, mentre più specificamente riferiti alla pianificazione di insediamenti turistici montani – e quindi più direttamente attinenti agli obiettivi programmatici a scala regionale – sono gli altri tre progetti: il piano del nuovo centro di Courmayeur (Figini e Pollini), il piano per la stazione sciistica di Pila, pensato come grande centro dopolavoristico (Banfi, Peressutti e Rogers) e il piano per la Conca del Breuil (Belgiojoso e Bottoni). Seppure diversi, questi tre progetti sono nel contempo molto simili, a conferma della loro appartenenza a comuni ideali. Di fronte alle avvisaglie di quello che si annuncia come un assalto al paesaggio, i loro autori puntano sull’essenzialità delle linee e dei ritmi e sul rapporto fra le forme pure dell’architettura e la complessità del paesaggio naturale. Anche qui siamo a scuola da Le Corbusier; ma, diversamente che negli interventi sulla città storica, la lezione è in questo caso reinterpretata in modo creativo e con una attenzione alle specifiche condizioni dei luoghi. D’altro canto, mentre la città storica è concepita come una somma di errori da rimuovere, la natura è vista come una realtà sacra da proteggere e riconquistare nella sua integrità. Se a questo riguardo andrebbero operate alcune precisazioni e distinzioni, che ragioni di spazio non ci consentono qui di sviluppare, non vi è comunque dubbio che gli esiti sono in questo caso più convincenti di quelli ottenuti sul corpo della città esistente; e lo sono tanto più se raffrontati a quanto in questo dopoguerra è venuto avanti a devastare quei paesaggi: basti per tutti il caso di Cervinia. Prima di entrare nel merito del progetto di Belgiojoso e Bottoni per la Conca del Breuil, non è inutile premettere che il gruppo dei razionalisti non è stato coinvolto solo nella traduzione urbanistico-architettonica delle linee programmatiche, ma che si è verificata una loro partecipazione attiva al lavoro di équipe anche sul versante delle analisi e della definizione della strategia generale del piano regionale. Lo dimostra, fra l’altro, lo scritto di Bottoni intitolato Il problema turistico-alberghiero nel Piano Regolatore della Valle d’Aosta, apparso all’inizio del 1938 su «L’Albergo in Italia», rivista sulla quale, va anche ricordato, egli aveva pubblicato l’anno precedente uno dei due studi organici apparsi in Italia negli anni Trenta (l’altro è quello di D. Ortensi su Roma, mentre Bottoni si occupa di Milano; cfr. V. Civico e G. Trotta, L’esposizione del Ventennale e l’ attrezzatura alberghiera dell’urbe, in «L’Albergo in Italia», a. XIV, n. 3, maggio-giugno 1938, pp. 137-148). L’analisi del fabbisogno alberghiero e dei servizi necessari alla configurazione di un centro turistico di alta montagna come quello del Breuil è condotto con puntualità e controllo della complessa materia. Per il progetto edilizio è prevista un’attuazione in tre tempi, ma il programma punta già a un rilancio immediato della stazione turistica ipotizzando «che il numero delle presenze annuali di turisti al Breuil possa salire a 230.000 circa in un anno contro le 17.000 dell’anno 1935». Per questo la dotazione di alberghi e di servizi è assunta come prioritaria rispetto all’edificazione di abitazioni per piccoli appartamenti da affittare (per le quali è comunque riservata una zona specifica). La previsione di 2.082 posti letto dà un’idea della vastità del programma, che non appare però sovrastimato rispetto all’esistente (345 posti letto nel 1935), anche per il confronto continuamente istituito da Bottoni e Belgiojoso con Zermatt, l’altra stazione sciistica del Cervino situata sul versante svizzero. Il principio di fondo a cui il piano si ispira è quello di garantire al centro turistico la massima accessibilità e dotazione infrastrutturale impedendo nel contempo che il dirompente sviluppo edilizio determinatosi in pochissimo tempo, a seguito dell’apertura nel 1934 della strada Valtournanche-Breuil al posto della precedente mulattiera, prosegua in direzione dello «sviluppo caotico per luogo, orientamento e volume» e «venga a turbare l’armonia e il selvaggio vigore del paesaggio» del Cervino (Bottoni, 1938, pp. 9 e 11). Viene pertanto proposto di definire «una zona di rispetto del paesaggio, dov’è consigliabile impedire sorgano costruzioni a diminuire la grandiosità del fondale» (Piano regionale della Valle d’Aosta, 1938, p. 18). Anche per la zona pianeggiante della Conca, più soggetta a valanghe, il progetto limita gli interventi al minimo necessario: un terminal per i mezzi di trasporto su gomma e una struttura di servizi essenziali e di attrezzature sportive. Per il resto il progetto si basa sulla proposta di spostare il baricentro dell’intervento più in alto, sul dorso che fronteggia il Cervino. Qui una grande piattaforma panoramica «a squadra» assume la funzione di ordinare l’intero insediamento. Una prima serie di alberghi è disposta parte in fregio alla piattaforma e parte in modo da formare un quadrato ideale, nel quale è però lasciato intatto l’andamento mosso e degradante del terreno. Una seconda serie di tre alberghi, orientata parallelamente a un lato della piattaforma (lato che è a sua volta disposto secondo l’asse eliotermico), è collocata sul versante occidentale del dosso, mentre in parallelo all’altro lato sono poste due piattaforme, anch’esse digradanti, di cui quella centrale ospitante il centro civico. Una zona a ville, che si snoda nel bosco su tre file in direzione sud, completa il quadro degli insediamenti. Nuove strade collegano infine i vari nuclei; particolare attenzione è posta alla creazione di collegamenti pedonali fra le diverse parti dell’insediamento e soprattutto fra le piattaforme, le quali si configurano come ampi davanzali-passeggiata posti al cospetto del Cervino. A contatto con uno dei paesaggi più straordinari delle Alpi, l’architettura razionale ha potuto misurarsi, in questo e negli altri due progetti turistici, con la tensione all’assoluto e, per usare le parole di Carlo Belli, spingere «il concetto di funzione […] fino al limite della poesia».

Giancarlo Consonni

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Bibliografia a cura di Giancarlo Consonni

Convenzione per il piano architettonico del Breuil tra gli architetti Piero Bottoni e Lodovico Belgiojoso. Dattiloscritto con correzioni manoscritte, 1 c./1 p.

Idem. Dattiloscritto con correzioni manoscritte, firmato, 1 c./1 p.

Descrizione e commento alle tavole di progetto. Dattiloscritto, 4 cc./4 pp.

Piano regolatore di Valle d’Aosta, stampato tipo della relazione di progetto. Stampato con annotazioni manoscritte,43 cc./43 pp., 3 ill. in più copie (tot. 10 cc).

Piano regionale della Valle d’Aosta, nota descrittiva. Dattiloscritto, in due copie, 2cc./2pp.

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